domenica 24 settembre 2017

E fate re di tal ch'è da sermone

Non molto tempo fa ha suscitato notevole scalpore la scelta della Statale di Milano di limitare l'accesso ai corsi di laurea della facoltà umanistiche tramite il sistema del numero chiuso, poi vanificata comunque dalla decisione del Tar del Lazio di accogliere il ricorso presentato dalle associazioni studentesche, le quali, dal canto loro, vedevano nel provvedimento varato dal rettore e dal senato accademico una subdola iniziativa volta ad ostacolare l'ingresso delle anime purificate ai cancelli del Paradiso. Ignoro volutamente i toni da melodramma metastasiano con cui è stata narrata una realtà, quella del test d'accesso, che riguarda da anni decine e decine di facoltà italiane per cui nessuno si è mai lamentato, e passo oltre.


Stando alle varie testate giornalistiche, la motivazione delle autorità accademiche nell'optare per un simile cambio di rotta risiede essenzialmente in questioni di mero carattere pratico, ossia l'assenza di un numero di aule e di professori sufficienti a garantire i minimi caratteri che conferiscano al diritto allo studio la basilare qualifica di "decente". Si parla, tra l'altro, di una situazione vissuta in maniera molto più diretta dagli studenti che dai docenti, costretti a essere stipati come polli in batteria in stanzoni cadenti da cui ci si aspetta che prima o poi fuoriesca pure lo Zyklon B e a doversi iscrivere ad appelli d'esame a cui gli insegnanti stremati si approcciano con lo stesso spirito di un centurione romano davanti alla decimazione. Alcuni potrebbero giustamente obiettare che la scelta del numero chiuso non è altro che una tipica pezza all'italiana posta per arginare un problema molto più grosso, ossia quello della mancata assunzione di altri membri del corpo docente e della risistemazione delle strutture atte ad ospitare gli studenti, e avrebbero pure ragione: il taglio dei fondi è certamente una realtà tanto deprecabile quanto ovvia, ma trattandosi di facoltà universalmente note per non riuscire a garantire un futuro certo ai propri studenti, è così deprecabile voler inserire una prova di sbarramento sulla base del merito per garantire ai beneficiari delle migliori aspettative di carriera? Vero, io parlo da studentessa che a Lettere ci è entrata con un misero test di valutazione, ma parlo anche da studentessa che, ignara delle domande del medesimo e desiderosa di scansare a tutti i costi il pericolo debiti, ha studiato per un bel po' su un manuale del TFA (sì, quello per l'ormai abolito tirocinio post laurea - non giudicatemi, ero in ansia). Parlo anche da umanista che ritiene di vivo cuore che il sapere e la cultura debbano essere liberi e fini a sé stessi (non a caso gli antichi ritenevano che la più nobile delle discipline fosse la filosofia), ma pure da figlia del proletariato rurale che non vede altra strada che rivolgersi all'insegnamento pubblico per intravedere un faro di luce nella nebbia della disoccupazione. Aggiungiamo infine che da meridionale sarò quasi sicuramente costretta a infilarmi in una graduatoria al nord per uno stipendio indegno e il quadro è completo.


Sia chiaro, non ho intenzione di incolpare il prossimo per una scelta di vita di cui mi sono assunta la responsabilità e che (almeno per ora) non rimpiango, ma una parte delle enormi difficoltà riscontrate dai laureati in materie umanistiche sta nel fatto che l'accesso indiscriminato ai corsi svaluta notevolmente il titolo di studio in ambito lavorativo, in cui professionisti capaci e competenti si vedono affiancati da persone che magari sono migrate in quell'ambito giusto perché non sapevano come occupare il tempo tra il diploma e il matrimonio di convenienza a cui certamente aspirano per campare di rendita, oppure perché costretti dai genitori a conquistare un titolo di studio qualunque per non screditare socialmente il buon nome di una famiglia di stimati professionisti che non può permettersi un figlio scansafatiche. Certo, si dirà, la presenza di tali individui è ben rappresentata anche in altre facoltà universalmente stimate (sì, medicina e ingegneria, sto parlando di voi), ma a differenza delle materie letterarie non ne risente il corso di studi in sé; convengo anche sul fatto che effettivamente bisogna farsi due domande sul perché i nullafacenti virino sulle discipline umanistiche e non vadano a ingrossare le fila di Fisica o Matematica (ma nemmeno quelle di Lettere Classiche, eh), ma in linea di massima è necessario convenire su alcuni punti fondamentali.
Il primo è che esistono studenti motivati e studenti non motivati, ed è perfettamente giusto che i primi debbano essere distinti dai secondi in un'occasione in cui possano dimostrare effettivamente quanto valgono (sia chiaro, il test d'accesso non è il discriminante sommo, ma è appunto un'occasione). Così come è giusto ed è meglio che studenti con notevoli capacità non vengano deviati in altri campi in nome della necessità: un valente linguista non potrà diventare un promettente giurista solo perché "sa studiare", un bravo informatico non ha necessariamente le carte in regola per fare il buon biologo.
Il secondo è "equiparare" la difficoltà dei vari corsi in modo che non esistano più facoltà che svolgano funzioni da refugium peccatorum (in alcuni casi si tratta proprio di ridare dignità, in altre semplicemente di cancellare una cattiva fama): una volta eliminato il concetto stesso di facoltà umanistiche come parcheggio del Monopoli, i fancazzisti dove devieranno? Semplice: o se ne staranno a casa loro oppure andranno nel posto che promette loro la carriera più remunerativa. Chi non agisce per passione lo fa necessariamente per denaro (uno dei tre motori del mondo, insieme al sesso e al potere), e a questo punto è meglio avere dei mediocri che alla fine un lavoro lo trovano piuttosto che dei mediocri a cui dobbiamo pagare i sussidi di disoccupazione.
Il terzo e ultimo punto è che dobbiamo francamente smetterla di voler mantenere intatto un "buon nome" familiare o volerne creare uno nuovo se ci si ritrova un erede la cui maggiore abilità vitale consiste nel trasformare l'ossigeno in anidride carbonica. Sarebbe sufficiente fargli adempiere onorevolmente il compito di mantenersi da solo senza infrangere la legge per considerare compiuto il proprio mestiere di genitore: del resto, all'altro mondo non vi chiederanno conto dei peccati altrui.

Titolo: Paradiso, VIII, 147 - "E rendete sovrano quello che invece è incline a far le omelie"